martedì 15 giugno 2010

"Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra della nostra società"

"Il calcio è l'ultima rappresentazione sacra della nostra società"
Pier Paolo Pasolini, 2 Novembre 1975


Pier Paolo Pasolini è stato poeta, regista, scrittore, pittore... e calciatore. La sua carriera calcistica non è l'eredità più grande che ci abbia lasciato. Tuttavia il suo amore per il calcio dice abbastanza circa la sua convinzione che la cultura popolare fosse un terreno di lotta politica per dare voce ai diseredati. Giocò a calcio dapprima a Casarsa, la città del Friuli in cui nacque sua madre e dove lui stesso soggiornò per lunghi periodi della sua vita - all'inizio degli anni Quaranta mentre cominciava a scrivere le prime poesie. È qui che diede il meglio di sé come centrocampista per la squadra locale. Gli anni da calciatore furono turbolenti, non certo privi di controversie, e hanno lasciato alla gente di Casarsa diversi ricordi.

L’amore di Pasolini per il gioco del calcio e la sua conoscenza tecnica di giocatori, schemi, stili e tattiche sono noti. Ogni occasione era opportuna per praticare il suo gioco preferito, soprattutto sui campetti delle periferie romane e non, negli intervalli di lavorazione dei suoi film o appena aveva tempo disponibile.

«In Italia c'è un'eredità nobile nel rapporto tra poesia, letteratura e calcio. Penso ad uno come Pasolini. Non c'è niente che spieghi Pasolini quanto il suo modo di giocare a pallone. Io l'ho conosciuto a Roma, a Porta Portese, su un campo il cui fondo era di carbon fossile». [Intervista di Lorenzo D’Alò ad Adriano Sofri.]

Ricordi e immagini

Daniele Serra, uno tra i primissimi visitatori di pasolini.net ["Pagine corsare", il sito web che ho creato nel 1997] ha così ricordato il “poeta-calciatore”:

«[...] io l'ho conosciuto di persona quando insieme a Sergio e Franco Citti, a Ninetto Davoli e altri veniva nella borgata romana in cui sono cresciuto a giocare a calcio (sport da lui molto amato e praticato) contro la mia squadretta di allora e di lui ricordo la sua immensa gentilezza e il suo essere "normale" in mezzo a noi "pischelli de borgata". Nonostante fosse già allora un famoso regista e quindi, secondo i canoni dello star system avrebbe dovuto frequentare ben altri siti che non i campetti di periferia.

Quando non vedeva qualcuno di noi sul campo, ricordandosi sempre il nome dell'assente, si preoccupava di sapere se il tale o il talatro avesse dei problemi e/o avesse bisogno di aiuto. Lui amava molto stare con noi e in un certo senso ci faceva sentire diversi da quello che eravamo, e quando parlava con noi (sebbene non dicesse mai cose semplici o tantomeno banali) lo faceva semplicemente, senza farci pesare la sua enorme cultura.

Non posso esprimere alcun giudizio sulle sue poesie perché, devo ammetterlo, la poesia non è il mio forte né il mio genere preferito, però il giudizio che posso esprimere sui suoi film non può che essere entusiastico. Quando rivedo film come Accattone o Uccellacci e uccellini, mi sembra di ritornare a quei tempi e rivivo le stesse emozioni che vivevo allora. Con la sua scomparsa è scomparso anche un pezzo del mio mondo [...]».

Scrive Giovanni Santucci in Calcio e letteratura: lo sport di Pasolini:

«Una tra le più belle fotografie di Pasolini lo ritrae in strada. Dietro di lui un marciapiede non fi- nito, solo un gradino di marmo e, oltre, un cumulo di erba e terra. Segni di quella Italia dalla edilizia affaccendata e fret- tolosa, di una modernità sbrigativa e inconcludente. È una giornata di sole e Pasolini è vestito di tutto punto, indossa un abito scuro e le scarpe di cuoio, la cravatta e il pullover sotto la giacca. Nonostante l’abbigliamento, con l’interno del piede destro controlla un pallone, la gamba e il busto formano una sola linea assai inclinata, tutto il peso sull’altra gamba flessa e ben piantata a terra. I pugni sono stretti e le braccia larghe, tese come ali alla ricerca dell’equilibrio; lo sguardo fisso a terra sul suo gesto tecnico, concentratissimo come in una quantità di altre fotografie scattate sui campi da gioco. Dovrebbe esserci un’incongruenza tra quel vestito e l’impegno sportivo, tra quel vestito e il “gioco“: sulle gambe i pantaloni si agitano in mille pieghe, sbalzati da cunei di ombra e luce, le code della giacca si aprono come un mantello e sventolano scomposte dietro la schiena. Invece tutto è naturale, in quella foto, la posa e lo sguardo, l’abito e la strada. È la fotografia più bella del Pasolini calciatore perché il calcio al pallone è in essa un gesto di libertà e di gioia. A indovinare dall’esterno, non si direbbe neppure una partita vera e propria, con tutta probabilità si trattava piuttosto di un incontro non prestabilito: una di quelle occasioni offerte dal caso in mezzo alla strada che lo scrittore aveva accolto di buon grado, unendosi, com’era solito fare, a quelle situazioni in cui non si contrasta e non si segnano dei goal, ma si fa semplicemente volare e correre il pallone, si prova qualche finezza, si urla e si ride mentre la palla l’hanno gli altri. Pasolini si prende la libertà di sporcarsi e di sudare quando non dovrebbe, di rovinare i suoi vestiti e magari di dimenticarsi di qualche appuntamento. Di sicuro quel mattino annodandosi la cravatta non prevedeva questa piccola occasione per scalmanarsi, ma quando essa si è presentata non ha avuto bisogno di prepararsi o cambiarsi, e neppure di togliersi la giacca. Ha chiamato, ha detto - passamela! - e via. È il modo di essere libero e tipico del bambino, che può correre senza remore dietro al pallone anche fuori della chiesa, dopo la prima comunione, con il vestito della festa e i mocassini, perché a vedere una palla che salta e rotola non si può star lì a guardare. Oltre i quindici o sedici anni, la vita attenta e pulita opprime, nega la possibilità di un simile divertimento, così estemporaneo e “anarchico”, e vedere il poeta in cravatta che gioca per strada a trenta e a quarant’anni mette addosso una qualche malinconia. Altra foto [lo scatto è di Federico Garolla]. Lo scrittore è col pallone tra i piedi sopra una pezza d’erba. Stavolta ha intorno parecchi ragazzi scamiciati. Ancora quella condizione libera, a profusione continua e quasi magmatica, del gioco del pallone, che nella periferia romana riempie le strade e i pomeriggi, tutti gli spiazzi i prati secchi e le comitive. Tra Pietralata e Monteverde imbattersi in una “partitella“ doveva essere cosa abituale e Pasolini partecipava, secondo la testimonianza di Ninetto Davoli [“Ogni volta che sentivamo il rumore di un pallone ci fermavamo e cominciavamo a giocare”], sempre volentieri e con un’accensione di entusiasmo, una sorta di piacevole impellenza alla quale era ben facile arrendersi. In borgata il calcio è continua “improvvisazione“, qualche passaggio e qualche corsa, strilli risate e parolacce. Chiunque arriva può aggregarsi. Schiamazzi e polverone sono un basso continuo, sonoro e figurativo; tra sterri e immondizie, nel paesaggio urbano in costruzione di “case non ancora finite e già in rovina” c’è sempre un circolo di giovani o uno sciame di ragazzini che si riversa negli spazi desolati rincorrendo una palla [...]» [da un articolo sulla rivista "Storie"].

«[...] quando i ragazzini s’erano ormai stufati di giocare, un sabato, alcuni giovanotti più anziani si misero sotto la porta col pallone tra i piedi. Formarono un cerchio e cominciarono a fare del palleggio, colpendo la palla col collo del piede, in modo da farla scorrere raso terra, senza effetto, con dei bei colpetti secchi. Dopo un po’ erano tutti bagnati di sudore, ma non si volevano togliere le giacche della festa o i maglioni di lana azzurra con le strisce nere o gialle, a causa dell’aria tutta casuale e scherzosa con cui s’erano messi a giocare[…] [...] Tra i passaggi e gli stop si facevano due chiacchiere. “Ammazzete quanto sei moscio oggi, Alvà!” gridò un moro, coi capelli infracicati di brillantina. “‘E donne”, disse poi, facendo una rovesciata. “Vaffan...”, gli rispose Alvaro, con la sua faccia piena d’ossa [...] Cercò di fare una finezza colpendo il pallone di tacco, ma fece un liscio, e il pallone rotolò lontano verso il Riccetto e gli altri che se ne stavano sbragati sull’erba zozza. Allora il roscetto si alzò e senza fretta rilanciò il pallone verso i giovanotti. [...]». [Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, Garzanti, Milano 1955]

16 marzo 1975: “Novecento” vs. “Centoventi”

Primavera 1975. Pasolini si è stabilito con la sua troupe all’albergo San Lorenzo di Mantova. In quella provincia, nella villa di Pontemerlano di Roncoferrato, si svolgono le riprese di Salò o le centoventi giornate di Sodoma, il suo ultimo film. Un viaggio all’Inferno, al più basso fondo del male, che ogni spettatore si porterà dietro per sempre, niente a che fare con la normale visione di un film, un’esperienza invece tragica e irreversibile, tanto autentica da essere definitiva. Poco lontano, nei dintorni della sua città natale, Parma, Bernardo Bertolucci attende alla regia di Novecento.

Il 16 marzo, giorno del compleanno di Bertolucci, su entrambi i set le riprese sono sospese, per lasciare la possibilità, alle due com- pagnie, di allestire ciascuna la propria rappresentativa calci- stica. “Novecento“ contro “Centoventi“, dunque. La sfida è l’atteso evento intorno al quale ruotano i festeg- giamenti in onore del regista parmigiano. Qualcuno avanza l’ipotesi che, dietro l’organizzazione della gara, ci sia l’intento di ristabilire la pace dopo un’incomprensione, difficile a dirsi se vera o presunta, tra i due registi, a causa di alcune critiche mosse da Pasolini e male accolte dal suo vecchio assistente alla regia.

Luogo deputato all’incontro è il campo della Cittadella, poco distante dal Tardini e ancor oggi sede degli allenamenti del Parma - all’epoca in serie B. Il festeggiato non scende in campo, si limita a parteggiare per i propri colleghi dalla tribuna; Pasolini, inutile dirlo, per nulla al mondo avrebbe perso l’occasione di prendere parte a quella partita; nel ruolo di ala, come di consueto. Si stringe al braccio la fascia di capitano, e con tutta probabilità è proprio lui a imporre ai suoi le casacche rosso-blu del Bologna.

La funzione dell’arbitro viene spartita e assolta, in ciascuno dei due tempi, da un direttore di gara differente: il primo, se così si può dire, di estrazione “Centoventi“, l’altro “Novecento“. “... quanto alla squadra di Bertolucci le divise erano opera fantastica della costumista di Novecento (un lavoretto in più, da aggiungere ai circa quattromila costumi già elaborati per il film) Gitte Magrini: maglie viola copiativo con le cifre 900 in giallo verticale, calzettoni a strisce multicolori destinati a sviluppare, per il gioco di gambe, un effetto caleidoscopico (e psichedelico) tale da rendere difficile l’individuazione del pallone ai rivali”.

Così la cronaca apparsa su “ La Gazzetta di Parma” qualche giorno dopo la partita, resoconto aperto da un titolo incentrato proprio sulle fogge inusuali delle uniformi sportive ideate dalla Magrini: Bertolucci batte Pasolini (5-2) grazie ai calzettoni psichedelici. Il risultato parla chiaro sull’andamento dell’incontro, qualche equivoco nasce invece dalle ricostruzioni a posteriori, in particolare dalla memoria di Bertolucci che riferisce di un 19 a 13 e di un Pasolini che abbandona il campo stizzito per non essere stato coinvolto nel gioco dai compagni più bravi di lui.

A portare un chiarimento è la testimonianza di Ugo Chessari, una delle vittime in Salò, reduce, quanto a esperienza calcistica, da una militanza nel settore giovanile della Lazio non molto tempo addietro. Il suo ricordo travalica l’occasione singola e si diffonde sul ruolo egemonico del pallone come svago durante le pause di lavorazione del film, forse una sorta di esorcismo contro la martellante crudeltà delle scene che si rappresentavano: “Si arrabbiò: è vero. E lasciò il campo perché era fatto così, era una sua caratteristica diciamo negativa: ci teneva troppo. Lui non ci stava a perdere, era un intenditore di calcio: la prendeva con serietà, mentre Ninetto Davoli, per esempio, s’ammazzava dalle risate. Tra di noi c’erano cinque-sei giocatori buoni, il resto soltanto molta voglia. Fu un’esperienza bellissima quella di Salò, il pallone non mancava mai, a volte si saltava il pranzo per giocare”. [” La Gazzetta di Parma”, 20 marzo 1975]

Le lettere e le corse di “Stukas”: il calcio ufficiale

Ne parlava il poeta Giovanni Giudici qualche mese fa, in un convegno sul tema della Malinconia in svolgimento al Teatro Argentina di Roma, dove nel pomeriggio avrebbe dovuto leggere una scelta di suoi versi. Si era presentato sul palco inaspettatamente a fine mattinata, aiutato dalla moglie e da qualche zelante spettatore per salire quei pochi scalini che separano il palco stesso dalla platea, e là sopra, con la noncuranza del vecchio simpatico al quale tutti ormai tributano l’autorità di maestro, e che perciò può infischiarsene del tono altero e un po’ trombonesco dei relatori, una volta là sul palco ricordò, lui tifoso del Genoa, l’amico Vittorio Sereni, di nota fede interista. E di preciso raccontò una domenica di nebbia trascorsa assieme allo stadio Meazza, per assistere a una partita senza storia disputata appunto tra Inter e Genoa. Anni dopo quel campo avvolto di nebbia sarebbe entrato in alcuni versi di Giudici, per un malinconico ricordo dell’amico da poco scomparso.

Tutti conoscevano la passione di Sereni per l’Inter, come del resto tutti erano al corrente dell’altrettanto coriacea fede di Pasolini nel suo Bologna. Di frequente considerazioni, chiacchiere e sfottò calcistici entravano nella corrispondenza tra i due, laddove i più ingenui immaginerebbero invece, in uno scambio epistolare tra due poeti, solamente discussioni letterarie o toni seriosi. Pasolini ormai stabilmente a Roma, Sereni come sempre a Milano, frequentano abitualmente gli stadi delle rispettive città:

«Dunque... io sono tifoso e tutte le domeniche vado all’Olimpico di Roma; sono, naturalmente, tifoso del Bologna, essendo Bologna la mia città natale. Per quanto riguarda il tifo in genere, io penso che esso sia inscindibile dallo sport...» [Paese Sera”, 23 marzo 1956].

La piacevole consuetudine di frequentare gli stadi Pasolini la condivide con Giorgio Bassani, ferrarese - seppur non di nascita - e tifoso della Spal, e con Mario Soldati, juventino. È del tutto ovvio che, laddove se ne offra l’occasione, Pasolini non disdegni di assistere a partite di calcio anche in altri stadi, al di fuori della sua città adottiva:

«L’ultima partita a cui ho assistito, è stata la partita tra il Torino e l’Inter, due o tre domeniche fa. Ci sono andato in una grigia giornata torinese con Mario Soldati. Ha vinto il Torino (per cui, in quell’occasione tenevo, pur con gran sforzo: perché la... classe - sì, lo ripeto, questa orrenda parola, la “classe”- dell’Inter mi affascinava - anche se si è manifestata, e a frammenti, solo nel primo tempo: specie attraverso Corso (“classe” non vuol dire sempre simpatia: essa è come la grazia: crudele). Quella domenica, il Bologna ha perso (ho l’impressione, immeritatamente, con la Roma di Herrera) per due a uno. Che dolore! Che dolore!» [Pier Paolo Pasolini, Il Caos, a cura di G.C. Ferretti, Editori Riuniti, Roma 1979].

La passione di Pasolini per il Bologna non conoscerà mai alcun calo di intensità, quasi che la lontananza, la rarità di poter ammirare la propria squadra dal vivo, acuisse in lui l’attaccamento a quella maglia, anziché smorzarlo. Gioie e arrabbiature per i risultati dei rossoblu sono ovviamente più vive o cocenti nelle ghiotte occasioni in cui il Bologna scende a Roma per disputare una gara in trasferta. In proposito si può leggere una testimonianza dell’amico Franco Citti:

«Era un grande tifoso del Bologna. Una volta sola l’ho visto incazzato davvero. È stato quando andammo all’Olimpico a vedere Roma-Bologna e la sua squadra perse 4 a 1. La febbre del calcio, comunque, che forse non era riuscito a consumare al punto giusto quando da piccolo viveva in Friuli, non riusciva proprio a togliersela». [Franco Citti, Vita di un ragazzo di vita, SugarCo, Milano 1992].

Nella condivisione di euforie e tristezze collegate alle vicende calcistiche bolognesi, Pasolini ha un fedele alleato in Paolo Volponi. La comune passione sportiva si insinua nella corrispondenza tra i due con accenti particolarmente divertenti, che vale la pena di ricordare da un paio di lettere scritte da Volponi, entrambe nel ‘57:

«Ma sappi che tengo per te come per Coppi e per il Bologna»

e dopo la vittoria dell’amico al Premio Viareggio dello stesso anno, l’invito, affettuoso e ottimistico, fu quello di tenere

«una parte del milione da spendere in partite, giacché quest’anno seguiremo felici i trionfi del Bologna: che belle domeniche pomeriggio con i risultati sicuri nei tabellini dei caffè, con la Roma travolta...».

Lo stesso Volponi è di solito chiamato in causa al fianco di Pasolini quale accanito rappresentante del fronte del tifo bolognese, in particolare nelle poche righe che Pasolini stesso scambiò con Vittorio Sereni nel ‘54, a cavallo di un Inter-Bologna disputato una domenica di novembre di quell’anno:

«Roma, 12 novembre 1954 - Caro Sereni, [...] Intanto ti avverto che domenica il mio cuore è a Milano, insieme a quello grassoccio di Volponi: tutti e due a palpitare fino sull’orlo della trombosi. E mi dispiace che la gioia nostra sarà la tua disfatta... Pier Paolo Pasolini».

«Milano, 15 novembre 1954 - [...] Tanti affettuosi saluti, Tuo Sereni che non sapeva, badate, dell’esistenza d’un formidabile alleato al vostro San Petronio, San Gregorio, il più formidabile di tutti. Comunque, come Teodorico morente vedeva Severino Boezio, ieri ho visto al 90° sul cielo di San Siro effondersi il tuo ghigno e il serafico sorriso di quel volpone di Volponi.»

Soltanto un paio d’anni dopo Sereni avrà occasione per una vendetta, e non se la lascerà sfuggire, infierendo con ironia amichevole e pungente su un Bologna quindicesimo in classifica, dall’alto di un secondo posto dell’Inter inseguitore in vetta del Milan. La lettera è del 4 dicembre 1956:



«Ho bisogno di riprendere in mano certe cose interrotte e il mio lavoro, in queste condizioni, sarà sempre precario. Sicché ci vorrà del tempo prima che io sia convinto di pubblicare qualcosa in modo non clandestino: almeno il tempo che occorrerà al Bologna per risalire dalle attuali bassure (e campa cavallo, come vedi)».

Le domeniche pomeriggio allo stadio resteranno sempre per Pasolini un patrimonio da difendere:

«Ma, strano a dirsi, tutto è cambiato in questi trent’anni. Mi ricordo di quel tempo come se fosse il tempo di un morto; tutto è cambiato, ma le domeniche agli stadi, sono rimaste identiche. Me ne chiedo il perché...» [Il Caos, cit.].

La volontà tenace e ingenua di restare attaccato a quel nodo di vitalità autentica - a quel linguaggio fisico, muscolare e tecnico che, forse per esser tale, si era per miracolo conservato -, sta probabilmente al fondo della serietà e dell’impegno che, a giudicare dalle numerose e concordi testimonianze, Pasolini metteva sempre sul campo. Non era di certo nel suo costume lesinare sulla carica agonistica o sull’attenzione per la tattica; il fatto è che ci teneva fin troppo, e questo lo portava a volte fino alla rabbia. La rabbia triste di chi si accorge che, attorno al pallone che salta e rotola, si conserva quel poco di amicizia e di gioia concessi; il gioco, l’unico fantasma salterino al quale affidarsi ogni tanto, sebbene sperperato dimesso e umiliato dalla maturità. Era questa ultima rimanenza che il veloce Stukas inseguiva forse sulla fascia, e contro l’irritante inconsistenza del fantasma raddoppiava l’aggressività degli scatti, opponeva gli sguardi fissi, il sudore e la voglia, una concentrazione tanto seria da sembrare a qualcuno perfino eccessiva, a chi avesse dimenticato la cosa perduta: [...] Io, su questo, sono rimasto all’idealismo liceale, quando giocare al pallone era la cosa più bella del mondo. [”Il Giorno”, 14 luglio 1963]